Si sa gli atleti di colore hanno cambiato la storia della pallacanestro, nell’immaginario collettivo il primo che ci viene in mente è sicuramente Michael Jordan, poi ci sono tutti gli altri Magic Johnson, Lebron James, Kobe Bryant e tanti tanti altri.
Ma ben prima di loro c’è stato Oscar Robertson, negli anni 50-60 era senza alcun dubbio il migliore, ma la sua non è solo una storia sportiva, nasce nel Tennessee in campagna dove la famiglia non viveva certo nel lusso, sarà la madre a portare il figlio a Indianapolis e lo iscrive alla Crispus Attucks High School.
Il vero problema per Big O non è certo giocare bene a pallacanestro, porta la sua High School a vincere ben tre campionati, nonostante ciò non è molto amato, perché? La risposta è purtroppo facile e scontata, razzismo.
Entra così in scena il Ku Klux Klan, minacce di morte e messaggi intimidatori come il gatto nero morto messo nel suo armadietto, Oscar però non si lascia intimidire e non smette, diventerà professionista, nonostante i continui episodi di razzismo (Dopo le partite non gli era permesso mangiare al ristorante con il resto della squadra) Big O tiene duro, cambiando così per sempre non solo la pallacanestro ma anche la storia americana dando una vera e propria stoccata al razzismo.
Giocherà per ben quattordici stagioni in NBA indossando le casacche di Cincinnati Royals e Milwauke Bucks. Rookie dell’anno nel 1961 e MVP stagionale nel 1964 corona la sua carriera vincendo l’ambito anello nel 1971 con i Bucks insieme ad un altro futuro Hall of Famer Abdul-Jabbar.
Dopo il ritiro inizierà ad occuparsi a tempo pieno di volontariato, soprattutto rivolto alla popolazione afro-americana che popolava la periferia di Indianapolis. Per una sola stagione ha anche lavorato come commentatore NBA affiancato da Brent Musburger, rendendo famosa la frase: “Oh Brent, did you see that!?”.
The Big O Oscar Robertson, la leggenda delle leggende.
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